INTERVISTA AD ANDREA BORTOLOTTI
“Ho scelto di insegnare, portando la mia biografia in un mondo non sempre incline a farvi accedere i marginali. Da allora, consapevole dell’importanza della scuola, cerco di creare ponti tra i due mondi, di dialogare con i “ragazzi terribili” affinché comprendano l’importanza di rimanere a scuola, nel rispetto delle regole, per imparare, per crescere in un contesto altro rispetto a quello della loro quotidianità. Per farlo ho cercato di realizzare progettualità, dentro la scuola pubblica, capaci di realizzare una mediazione tra i due mondi”. Andrea Bortolotti.
“La scuola è una madre”, considerava Edmondo De Amicis, e come tale dovrebbe educare il proprio figlio, ogni allievo, con amore e rispetto delle sue capacità, spronandolo a dare il meglio di sé; e non indottrinandolo in un meccanismo, una catena di montaggio fatta di regole che impongono agli studenti di apprendere un tot nozioni, di attraversare anni di studi, spesso nemmeno consci di ciò che realmente hanno imparato, per poi essere valutati per quel test andato bene o quella interrogazione sufficiente e poi via: avanti un altro! Ciò non pone un buon servizio alla comunità. Perché diciamolo: solo la fiducia in loro stessi li aiuterà a superare i momenti bui di questa esistenza, e saranno tanti… Per questo la scuola dovrebbe prendere per mano ogni singolo allievo e portarlo nel mondo, tenendo conto del suo mondo, esaltando le sue capacità e rendendolo più sicuro del suo valore, ma mai e poi mai omologarlo. Per il semplice fatto, sempre meno considerato, che ogni essere umano è diverso da un altro e non sarà il riempirgli la testa di nozioni a renderlo migliore se ciò non verrà affiancato da insegnanti che credono in lui, nonostante l’appartenenza sociale, nonostante le sue difficoltà, e lo spronino a dare il meglio di sé.
Oggi ne parliamo con lo scrittore, Andrea Bortolotti, conosciamolo meglio: Classe 1967, residente in Trentino. Solo alle superiori ha compreso quanto fosse importante lo studio, quanto facesse la differenza in un percorso di crescita, tutto questo grazie ad un’insegnante che lo ha spronato, lo ha incuriosito, lo ha appassionato, andando oltre alla sua situazione familiare, ha visto le sue potenzialità! Terminati gli studi universitari, Bortolotti, si dedica all’insegnamento nella formazione professionale, dove ancora oggi lavora. Ha pubblicato tre libri: in Clap! racconta un’esperienza di scuola inclusiva, in Lettere a Nick si rivolge a un ragazzo che sta per abbandonare gli studi, nei racconti brevi di Tre storie affronta il tema della relazione tra padre e figlio. Da pochi giorni è uscito il suo nuovo libro. La scuola che non c’è, utopie, tormenti e disillusioni di un insegnante, edito da Dissensi Edizioni.
Benvenuto a Oltre scrittura; ci parli della sua insegnante e di come l’ha spinta a proseguire gli studi?
Mi permetta, innanzitutto, dopo averLa ringraziata per l’ospitalità, una precisazione. Le mie parole non si riferiranno a tutti gli adolescenti, questa impostazione presupporrebbe costrutti teorici che non mi appartengono, ma a un frammento di essi: quelli che ho incontrato e conosciuto, che abitano un determinato tempo e spazio, che frequentano poco e male la scuola e troppo spesso l’abbandonano senza aver acquisito le conoscenze e gli strumenti minimi indispensabili per affrontare il futuro. E anche dopo aver circoscritto il fenomeno, non saprò che portare alla luce un solo minuscolo dettaglio della complessità che ci troviamo di fronte.
Ma proviamo a iniziare.
Quando sulla mia strada è apparsa Paola, ero un ragazzino molto arrabbiato e invidioso di quella condizione che un giorno avrei scoperto essere la normalità piccolo borghese, della quale allora non potevo percepire che la parte esteriore: un padre, una madre, una camera per te, una tavola apparecchiata, un’automobile per andare d’estate in vacanza. Tutti assieme, il padre il fine settimana. Vivevo nei cortili di un complesso di case popolari edificate nel 1929, sulle quali si stagliava il motto marmoreo “Nel sole la vita”. Da poco era sfumato il sogno di diventare un calciatore professionista. Ci avevano creduto in molti e col tempo pure io. Avevo smesso di tenere il pallone sotto il braccio e non giocavo più da solo, al buio. Ero il migliore del quartiere, ma avevo capito che non bastava, fuori c’erano ragazzini più arrabbiati di me e dopo il pallone erano arrivate le nottate trascorse a conquistare quella città che alle luci del giorno si sarebbe, anche lei, donata agli altri.
La mia furia trovava sfogo nei vestiti trasandati, nei lunghi capelli spettinati, nelle collane e negli orecchini.
Bocciato fin dalla prima lezione al Tecnico Commerciale, sono finito all’Istituto Professionale sotto casa. Qui ottengo, non troppo brillantemente, la qualifica triennale e l’esplorazione avrebbe dovuto finire lì. Gli amici cercavano un lavoro, i più grandi erano occupati nei cantieri o si arrangiavano come potevano. Avrei dovuto seguirli, ma nei loro calcoli, nella inesorabile fissità della vita di quartiere, nei pomeriggi gettati sui gradini del bar, qualcosa non mi tornava e così, senza conoscerne il motivo, ho proseguito gli studi e incontrato Paola.
Paola non ha fatto nulla di speciale, se non rimanere sé stessa e testimoniare, tenendo duro quando nulla accadeva, ciò in cui credeva. Per lei ero uno studente come gli altri, nessun pregiudizio o paternalismo, solleciti o sterili discorsi programmatici (quelli che io, purtroppo, continuo a fare…). Il rigore onesto, la coerenza tra parola e azione, la passione nei confronti del lavoro, il sorriso e i rimproveri, le lezioni colte, tutto questo, giorno dopo giorno, con lentezza e tenacia, mi hanno avvicinato allo studio. Ho percepito, per la prima volta, grazie a lei, che dentro i libri poteva esserci qualcosa di rivoluzionario e che la mia era soltanto la solita sterile jacquerie. Grazie a lei ho imparato che la mia vicenda, che avevo sempre considerato assoluta, altro non era che la consueta storia degli ultimi. Il mio sogno è cambiato senza una particolare “spinta”, ma attraverso l’esempio e la forza della parola. Grazie a lei ho intrapreso gli studi universitari.
Negli anni qualche volta ci siamo incontrati, casualmente lungo la via che ci portava allo stesso lavoro. Mi dispiace averla persa di vista, ma ho ancora il suo numero di telefono e forse un giorno la chiamerò.
Nel suo percorso professionale qual è la motivazione che la sprona ad andare in classe ogni mattina?
Il lavoro in aula, dal quale sono a lungo mancato, per aver svolto, mansioni diverse da quelle dell’insegnamento, rappresenta oggi la parte più importante, la sola, forse, di una qualche utilità. Purtroppo, il mestiere del docente è stritolato da doveri estranei alla sua essenza che è rappresentata dallo studio, dalla preparazione delle lezioni e dalla capacità di gestire le relazioni. La scuola ha finito per poggiare il basamento della sua missione sul rigore amministrativo, su procedure e regolamenti necessari ad evitare ricorsi. Abbiamo costruito un’enorme fortezza di regole, divieti, meccaniche sanzioni all’interno delle quali perderebbe l’orientamento persino il dottor Azzecca-garbugli. Questa necessità di controllare attraverso risposte razionali il reale, dimostra la fragilità dell’istituzione scuola, che rappresenta la più straordinaria esperienza – assieme alla sanità pubblica –, anche se incompiuta, dell’Italia unita. Quindi, per chi ha scelto di insegnare o comunque di impegnarsi per la scuola, non può esserci stimolo più nobile che quello di alzarsi, mattino dopo mattino, ed essere parte della scuola fatica dopo fatica, discussione dopo discussione, incazzatura dopo incazzatura, frustrazione dopo frustrazione. Lavorare a scuola è un onore e un privilegio.
La parola educare deriva dal latino educĕre che significa: “trarre fuori”. Si continua, invece, a riempire i giovani di nozioni di ogni genere: scienze, matematica, letteratura, storia e via dicendo, ma senza spronarli a tirar fuori il loro pensiero, mantenendoli instradati in una direzione uguale per tutti in cui, forse, quel determinato studente non ha alcuna voglia di andare. Una sua considerazione.
Lo stile di vita che abbiamo imposto, porta con sé un incessante bombardamento di pseudo verità passate per verità. I cattivi maestri, che sono sempre esistiti, assumono oggi un’influenza planetaria, possiedono potenti e accattivanti strumenti di persuasione globale che la scuola non è in grado di fronteggiare. Le nozioni trasmesse dalla scuola rappresentano la quota residuale di quelle di cui si nutrono i ragazzi (e tutti noi). Maggiori sono gli strumenti di protezione posseduti dalla persona per contrastare la pervasività dei cattivi maestri, maggiore sarà la capacità di “tirar fuori il proprio pensiero”. Ma essi sono ereditati per condizione di nascita e vengono solo consolidati dalla scuola. I ragazzi che non ereditano strumenti drenanti e dalla scuola portano via poco o nulla, vagano in balìa dei cattivi maestri giorno e notte impegnati a diffondere i loro valori. Scienze, matematica, letteratura, storia… rappresentano occasioni per esercitare lo spirito critico e formare il pensiero, ma la mia sensazione è che si tratti di occasioni destinate a una parte dei cittadini. Gli altri sono fagocitati dalla pervasività mediatica, dalla banalizzazione della complessità che spesso è l’anticamera dei regimi. La direzione collettiva non è determinata dalla scuola bensì da strutture più potenti di essa. La scuola è, necessariamente e per sua stessa natura, conservatrice, essendo istituzione e strumento di consolidamento dello Stato. Come dimostrano anche questi tempi, uno Stato reazionario consapevole dell’importanza della scuola piega a suo vantaggio programmi e finanziamenti. Ma questo ci porterebbe lontano…
“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”. John Keating (Robin Williams, film: L’attimo Fuggente). Gli ideali, l’amore per il genere umano sono solo più belle frasi scritte per un copione di film o nei giovani di oggi vive ancora questa fiamma?
Mi chiedo se ideali umanistici e amore per il genere umano appartengono al protocollo che regola gli incontri tra capi di stato trasmessi in diretta planetaria, se ancora vivono, o sopravvivono, nei cuori e nella mente della gente comune come me. Mi rendo conto di riportare ogni Sua domanda allo stesso punto di partenza ma, vede, i giovani non sono stati trasportati sulla terra da un pianeta alieno, ma sono il frutto del nostro albero. Sono gli adulti a concimare, potare, allontanare i parassiti affinché, quando verrà il tempo, l’albero fruttifichi. Le sembra che noi adulti abbondiamo in dedizione e pazienza? Come può reagire di fronte alle fatiche della crescita un fanciullo schiacciato da un divorzio tra genitori adolescenti? Come può reagire di fronte alla proposta educativa della scuola un ragazzo che respira il fallimento dell’adulto? Come affronta la crescita il bambino in un mondo di adulti poco inclini all’empatia? Quello che forma è l’esempio e noi non rappresentiamo esempi edificanti. Spesso, per quello che vedo nella cornice che mi interessa esplorare, la realtà costringe i giovani ad abbassare la testa e andare avanti da soli, senza punti di riferimento quando va bene. La nobiltà dell’animo, la bellezza attecchiscono su un terreno dissodato da un’infanzia serena. Pensi a Un anno a Pietralata di Albino Bernardini o alla Lettera a una professoressa di don Milani. Ci insegnano che dovrebbe essere compito della scuola dissodare, per tutti, quel terreno. Credo che la preparazione per la semina possa iniziare soltanto quando l’istituzione-scuola la smetterà di catalogare e inizierà a offrire senza ipocrisie a ciascun ragazzo ciò di cui ha bisogno per costruire, dentro la società, la propria via: conoscenza, capacità critica, strumenti, poesia, ideali e amore per il genere umano. Ma per questo dobbiamo destandardizzare tempi e percorsi. E la scuola non è pronta.
La nuova generazione vive nell’ immediato: i giovani sono abituati ad avere tutto e subito in un clic. Siamo nella società del tutto è possibile. Non ci sono pene severe. L’apparenza, la bellezza, la ricchezza rendono agli occhi dei giovani il sacrificio, il lavoro: ridicoli. Pare davvero lontano il tempo in cui l’impegno era la via al successo. Come possiamo, sia noi genitori che voi insegnanti, distaccarli dall’illusione mediatica e risvegliare in loro lo spirito di sacrificio?
Forse, il primo passo, quello fondamentale, è staccarci noi stessi dall’illusione mediatica e proporre esempio e riferimenti diversi. Sarebbe importante destrutturare questa condizione ciascuno per la propria parte, con atti concreti. Come possiamo esigere un cambio di passo fino a che rimaniamo intrappolati dal telefonino mentre spingiamo il passeggino?, finché in pizzeria o in automobile teniamo quieti i figli incollandoli allo schermo?, fin quando i nonni regalano uno smartphone per il decimo compleanno? Siamo tutti coinvolti, nessuno escluso.
La scuola ha smesso da tempo di essere un ascensore sociale, anche se, concordo con Lei, nel passato l’impegno poteva essere propedeutico al successo personale (comunque, anche allora, passare in televisione non era poi così disprezzato). Forse, il successo, è realizzare i propri sogni, senza troppo clamore, rialzandosi ad ogni inciampo. Si tratta di una dimensione interiore, che non va esibita, è uno sforzo senza voce. E da questo, oggi, siamo molto lontani.
Non amo la parola “sacrificio”, essa rimanda ad una dimensione religiosa che evoca, nella nostra tradizione cattolica, una salvezza subordinata. Preferisco utilizzare “fatica”, “tenacia”, “dedizione”, che appartengono al vocabolario laico. Colgo l’occasione per sottolineare che non sono uno scrittore in quanto il mio intento non è letterario o artistico. Mi impegno soltanto testimoniare ciò che più nel mio lavoro e nella vita mi colpisce. È a questo che cerco di dare forma e parola. In occasione di quest’ultimo libro, il registro onirico e la dimensione distopica mi sono sembrati adeguati per raccontare una storia che vorrebbe essere tutte le storie. Quello che ho scritto è una sorta di fiaba contemporanea.
Tornando alla sua domanda, non saprei dirle come risvegliare la necessità dell’impegno e della fatica. Gli adolescenti indossano spesso scarpe e felpe molto costose, ostentano smartphone incompatibili con il reddito dei genitori. È il sacrificio degli adulti in cambio del riconoscimento sociale del figlio, è la delega all’oggetto delle nostre incapacità. È la rinuncia ai “no”, che costringono all’assunzione di responsabilità.
Giovani sempre più indifferenti alla vita, l’esempio che l’umanità sta dando non è certo dei migliori. La scuola qui svolge un ruolo fondamentale. Ma come mediare e soprattutto portare nei giovani la voglia di imparare? Di credere nei loro sogni?
L’indifferenza potrebbe essere la risposta adulta all’impotenza. I ragazzi sono costretti a crescere nella realtà che abbiamo costruito senza chiedere loro consigli e senza pensare al futuro del mondo. E’ dentro questa cornice, positiva o negativa che sia, che essi si alimenteranno e cresceranno. E come possono fare i ragazzi a comprendere che è il nostro esempio è da evitare, se è l’unico che conoscono? Non credo si debba parlare di indifferenza, piuttosto di annichilimento di fronte all’impossibilità di mostrare disponibilità e dolcezza, certezza.
Come può la scuola essere importante quando è detto ad alta voce che essa rappresenta un dovere per assolvere un obbligo, quando la finalizziamo a un lavoro? Imparare dovrebbe rappresentare un valore sociale condiviso, ed oggi, molto spesso, l’atto di imparare è deriso o finalizzato al guadagno. La domanda “prof., quanto guadagna?”, salta fuori almeno una volta all’anno, dopo che ti hanno visto parcheggiare l’automobile.
Comunque, che ci piaccia o meno, i ragazzi, anche quelli che non prendono più di quattro alle verifiche, sanno e sanno fare, molte cose: disegnano, suonano uno strumento o una consolle, riparano una bicicletta. Ma noi siamo disinteressati a questo sapere o non lo riteniamo degno di considerazione. Dobbiamo tornare ad essere curiosi, soprattutto quando si tratta di un sapere altro da quello istituzionale dentro il quale siamo cresciuti. Dal momento che esiste ed è espressione dei giovani, dobbiamo imparare a rispettarlo. Forse così si potrebbe iniziare a ricostruire un dialogo.
La scuola non è più la sola depositaria del sapere, gran parte dell’apprendimento avviene altrove, in modi forme e strutture diverse da quelle tradizionali. Eppure, anche questo è sapere. Qualche settimana fa, dopo aver scritto con il pennarello cancellabile una mappa concettuale alla lavagna (ingrigita e curva), ho passeggiato tra i banchi in attesa che gli studenti la copiassero. Uno di loro, seduto in ultima fila, stava giocando con il suo iPhone ad Assassin’s Creed. Ho dato sfogo alla dovuta ramanzina, ma sapevo che tra la mia proposta e quella del gioco non ci sarebbe stata partita, se non ne avessi riconosciuto l’importanza che esso ha per lui. Per questo, terminata la lezione, mi sono avvicinato al ragazzo chiedendogli di spiegarmi il gioco e… sorpresa, sapeva da dieci. La disponibilità al confronto, a riconoscere vero un sapere nato altrove rispetto all’istituzione, potrebbe rappresentare un passaggio per attirare gli adolescenti verso la conoscenza tradizionale che rappresenta e testimonia la storia del pensiero umano. La nostra scuola affonda le radici in un mondo scomparso e lo studio presuppone tempi che sono smentiti dal dominio della rapidità e dell’immaginazione. Riportare ad essi non può essere imposto, ma è l’esito di un lungo lavoro collettivo, di contesti e accompagnamenti adeguati.
I giovani hanno i loro sogni, come è sempre stato e sempre sarà, ma troppo spesso facciamo l’errore di chiedere alla loro vita di concretizzare i nostri sogni. È un errore che ogni genitore fa. Dobbiamo lasciarli liberi di inseguire i loro sogni, che ci piacciano o no. Se vogliamo cambiare le cose iniziamo ad impegnarci per garantire loro un mondo che ispiri sogni diversi.
Qual è secondo lei il libro che ogni ragazzo, ogni genitore e ogni insegnante dovrebbe leggere?
Il primo libro che ho letto è stato I ragazzi della via Pál, di Molnár. A casa non c’erano libri, avevamo altre urgenze da affrontare. A me piaceva andare dalla dirimpettaia, una signora anziana di poche parole che fumava molto, Nazionali semplici senza filtro. Stavamo in cucina, lei seduta a ricamare ed io alla finestra a osservare il quartiere vivere. Un giorno, sul tavolo, è comparso il libro di Molnár. Ho iniziato a leggerlo e sono tornato da lei ogni pomeriggio fino all’ultima pagina. Dopo questa lettura sono tornato a dimenticarmi dei libri, che ho ritrovato molti anni più tardi. Ma dopo quella lettura la mia vita è cambiata, perché ho iniziato a interpretare ciò che accadeva in me e attorno a me in modo diverso. Tutto questo per dire che c’è un tempo per la lettura ed esso arriva quando meno te lo aspetti. Certo, molto spesso l’incontro non avviene. Oltre le pagine c’è quello che puoi imparare dalla vita di ogni giorno. Chi cresce in un contesto culturalmente stimolante, frequenta fin da piccino la biblioteca e il teatro per bambini, è sottoposto a stimoli e ha accanto a sé quei ponti che permettono di imboccare la strada verso la lettura. Tutti gli altri dovranno essere fortunati e spesso la fortuna si rifiuta di bussare alla tua porta.
Ciò che fa la differenza, per chi vive in luoghi e contesti deprivati, tra chi incontra un libro e chi no, è affidato alla sorte di incontrare una persona e un libro al momento giusto.
Inoltre, ogni età, ogni fase della vita ha i suoi libri. La scintilla scaturisce dalla coincidenza tra urgenza interiore e libro. Per me tale convergenza è avvenuta, in età diverse, con il Convivio e il Canzoniere, ma anche con Siddharta, le Satire dell’Ariosto, ma anche con Sorvegliare e punire di Foucault, Descolarizzare la società di Illich, con il Pasolini degli Scritti Corsari, con il Bianciardi della Vita Agra. Incontri che hanno avuto inizio grazie alla dirimpettaia, sono proseguiti con la professoressa (che mi ha fatto stimolato a leggere, ad esempio, À rebours di Huysmans e Ossi di seppia di Montale) e sono proseguiti con le scoperte personali.
I genitori svolgono un ruolo molto importante nella crescita educativa del proprio figlio; oggi per poco tempo, o diciamo voglia, molti genitori preferiscono delegare… Quanto è importante per il benessere dell’alunno un buon rapporto scuola e famiglia?
La delega è la conseguenza della fragilità del mondo adulto. Viviamo in un’epoca di cambiamenti radicali, repentini, incessanti che non siamo in grado di metabolizzare. Il tempo della contemporaneità è, per così direi, disallineato rispetto al tempo che necessita all’uomo per comprendere, riflettere e infine reagire secondo la propria biografia personale e culturale. Anche gli adulti sono vittime di questa epoca, che costringe, qualcuno crede programmaticamente, a concentrarsi su se stessi, a rinchiudersi in una bolla, a mostrarsi capaci di esaudire, sempre, le incessanti richieste di prestazioni estetiche e fisiche.
Certo, l’istituto della delega è diffuso, ma non credo esso sia, percentualmente, così rilevante. Sarebbe più utile riflettere sull’incapacità nell’accompagnamento alla crescita, che l’adulto, come categoria, sta dimostrando. O sulla presunzione di verità educativa dei genitori che pretendono dalla scuola di essere una loro protuberanza, che accusano la scuola di non comprendere, che sono arrabbiati con la scuola.
È possibile costruire, con tenace pazienza, un rapporto costruttivo tra scuola e famiglia, quando il mandato della prima è riconosciuto dalla società. Oggi, a me pare, le aspettative della famiglia, spesso, non collimano, o meglio divergono, da quello che la scuola offre.
Il genitore vede nella scuola il luogo che sancirà l’unicità del proprio figlio e non accetta che la scuola smentisca tale aspettativa. Non si portano a scuola i figli perché imparino, ma perché possano dimostrare la loro unicità, il loro talento. Insomma, i motivi per l’attuale discrepanza tra aspettative genitoriali e ruolo della scuola sono profonde. In un contesto caratterizzato dalla linearità, potrebbe essere sufficiente, per creare benessere, un’alleanza, ma in un contesto caratterizzato da complessità e imprevedibilità, il benessere degli adolescenti – e il dolore necessario alla crescita -, dovrebbe affondare le radici in una solida intesa: il futuro di ciascun ragazzo inteso come essere vivente libero e unico, cittadino del mondo, impegnato e artefice del cambiamento.
Oltre all’ insegnamento ha pubblicato diversi libri incentrati su tematiche come l’inclusività, l’educazione, il dialogo. Mi soffermo sui giovani portatori d’handicap, l’inclusività qui è sempre molto difficile. È uso comune separare i ragazzi con difficoltà in aule apposite, in qualche modo non renderli partecipi della vita di classe. La figura del sostegno è importante ma dovrebbe unire non dividere. Cosa ne pensa?
La parola “inclusione” mi spaventa. Ospitato in un mondo estraneo a quello delle mie origini, per essere incluso ho dovuto adattarmi al pensiero della maggioranza. Includere significa troppo spesso accettare soltanto il diverso che si dimostra disponibile a dimenticare, o almeno ad annacquare, le proprie origini. Chiedere all’altro da noi di abbandonare il suo mondo per accettare il nostro, in nome di una presunta superiorità fondata sui numeri, è un atto di violenza e l’inclusione, così intesa, rappresenta un atto di violenza.
Detto questo, la storia della scuola italiana è anche la storia di chi ha combattuto, dalle cattedre universitarie alle aule, affinché la scuola fosse davvero per tutti. Molta strada è stata percorsa, non dimentichiamolo. Molta strada è da percorrere, non dimentichiamola. L’attenzione dedicata ai ragazzi con Bisogni Educativi Speciali rappresenta un valore imprescindibile della nostra scuola, anche se, evidentemente come dice lei, alcune ombre ancora esistono.
La scuola, per come la intendo io, dovrebbe essere il luogo dove tutti (ragazzi, genitori, docenti, personale amministrativo, bidelli – collaboratore scolastico è un termine che non mi piace -) vivono occasioni di riscatto, di apprendimento, di crescita, di soddisfazione umana e professionale. Penso ad una scuola di tutti, aperta senza ipocrisie oltre l’orario di lezione, luogo di vitale importanza per il quartiere, occasione di relazioni formali e informali, organizzatrice di eventi culturali, laboratori artistici e artigianali… Sono i nostri occhi a determinare la visione del mondo e i nostri occhi sono inquinati dal pregiudizio, da strutture mentali ereditate sulle quali non abbiamo riflettuto abbastanza. Non è sufficiente che il ragazzo con Bisogni Educativi Speciali sia iscritto a scuola, esso deve essere percepito da tutti, senza finzione o ipocrisia, come un membro fondamentale della comunità, deve vivere la scuola, come tutti, da protagonista e trovare in essa un luogo di benessere capace di tirar fuori il meglio. Ma siamo assai lontano dalla meta… Ancora oggi, ad esempio, la bocciatura è considerata e vissuta come incapacità del soggetto. La bocciatura sporca l’immagine che il ragazzo ha di sé, che i genitori e la scuola hanno di lui. La bocciatura è giudicante, un marchio di pessima qualità tatuato in fronte, mentre non è che un inciampo provocato da innumerevoli condizioni, uno dei molti della vita. Quando una persona inciampa è nostro compito aiutarla a rialzarsi. Senza pregiudizio.
La classe, inoltre, è un’eredità del passato che potrebbe, o dovrebbe, essere superata. Come ha spiegato Foucault, essa serve per imporre a tutti i medesimi ritmi e livelli. Chi fatica rimane indietro e chi rimane indietro è diverso, inferiore. È questo modo di pensare che frena una reale inclusione. Inclusione ed esclusione sono categorie mentali che andrebbero superate.

Nel suo ultimo libro “La scuola che non c’è”, edito da Dissensi Edizioni, riporta argomenti davvero degni di attenzione, tra i passaggi della prefazione, scritta da Piergiorgio Reggio, mi soffermo su questo appunto: L’Autore si chiede e ci chiede se la scuola e l’educazione siano inevitabilmente destinate ad essere dispositivi sociali e culturali adattivi e selettivi o se vi siano ancora spazi per un compito scolastico di promozione autentica delle qualità di ognuno. E torniamo al succo della questione cosa si può fare affinché si comprenda che insegnare non è un lavoro da catena di montaggio, ma è un’arte e ogni alunno un pezzo unico?
Insegnare è un antico mestiere artigianale che presuppone modestia e pazienza. È un mestiere contadino che sporca le mani e comporta la fatica di dissodare, è un mestiere esposto ai capricci delle intemperie, al gelo e alla calura. È un mestiere solitario, perché lì, in aula, davanti ai ragazzi ci sei tu, con la tua persona prima che con il tuo sapere. È un mestiere umile, poco riconosciuto, spesso scambiato per babysitteraggio. La scuola, lo abbiamo già detto, è un dispositivo sociale e culturale selettivo. Ciascun essere umano nasce unico e spesso cresce standardizzato. La scuola per tutti non è data, è una conquista quotidiana. Ed è questo il motivo che spinge moltissimi insegnanti, in ogni angolo del Paese, ogni giorno, a tornare a scuola. La scuola delega la lotta all’analfabetismo. Oggi, sul territorio nazionale esistono molte scuole della seconda opportunità, o della seconda democrazia. Luoghi fondamentali dove vengono accolti i rifiutati dalla scuola, per così dire, ordinaria. Luoghi sussidiari. Per quale motivo l’istituzione scuola prosegue a delegare la presa in carico dei ragazzi più fragili? Forse perché è normale – ed è certo normalizzato – considerarla ad utilizzo esclusivo dei ragazzi che ci sanno stare perché l’hanno imparato in famiglia? “Se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola, è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”, scriveva il priore di Barbiana. Eppure, purtroppo, è ancora così. La tradizione classista continua a proiettare la sua ombra.
E ora tocchiamo un tasto dolente: le istituzioni. Quali sono le loro mancanze, cosa potrebbero fare e non fanno per migliorare l’assetto scolastico e dare qualità alla Scuola di oggi?
Non saprei. Si tratta di una questione troppo complessa per le mie capacità. Proseguendo nella risposta cadrei necessariamente in considerazioni banali e scontate.
Qual è il messaggio racchiuso in questo suo ultimo libro?
Rispondo con le parole del professor Reggio, autore della prefazione, parte fondamentale del libro. “ […] a me pare che – neanche tanto implicitamente – la storia di Carlo e della sua scuola si possa leggere anche alla luce di questa radicale trasformazione, forse di un tradimento di una promessa pedagogica che veniva dalla lezione di Barbiana e, ancor prima, dall’utopia di Comenius: tutti possono imparare tutto. Certo dipende da come, quando, con chi ma soprattutto dal perché imparare, come ben spiegarono don Milani ed i suoi ragazzi. A questa utopia Carlo, il protagonista di La scuola che non c’è, crede ostinatamente e sopporta, con atteggiamento stoico, le ripetute delusioni e disillusioni alle quali è sottoposto. In un clima plumbeo, novembrino, in una piccola comunità di fondovalle egli vive la solitudine alla quale la propria convinzione utopica lo costringe. La montagna della narrazione è oscura, priva di visione e di orizzonte, anche salendo in alto. In questo ambiente opprimente, Carlo e i suoi alunni sono costretti a vivere ciecamente in un labirintico e ritualistico ripetersi di norme, procedure e circolari, regole e sanzioni imposte da un potere pedagogico, incarnato da Hafner, che non concede alcuna eccezione o dilazione“.
La domanda, fatta da un suo studente negli anni, che l’ha colpita maggiormente?
Prof., che senso ha la mia vita?
Si descriva in una sola parola.
Fragile.
Ringraziando l’autore per questa interessante e approfondita intervista ricordo ai lettori il link dove potete acquistare il suo libro.








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