INTERVISTA AL SAGGISTA E POETA ROSARIO RITO
“La vera e autentica libertà di un uomo non consiste nel saper volare, come le rondini e gli uccelli verso l’infinito azzurro del cielo, ma nella propria capacità di saper ricrearsi per continuare a sognare, se non si vuole correre il rischio di rimanere preda della propria agonia”.
Rosario Rito
Occorre attraversarlo, viverlo il dolore per poter davvero comprendere il bisogno altrui nella sua interezza che non sia solo un aiuto materiale, ma soprattutto di vicinanza, di amore e condivisione con i sofferenti. L’ ospite di oggi, affetto da paresi spastica, si fa carico di questo messaggio e tramite i suoi libri porta la sua esperienza, unita ad analisi approfondita apre una finestra sulla disabilità, rivelandola sotto aspetti, spesso sottovalutati, portando a vedere il disabile non solo come un soggetto fragile da proteggere ma come essere consapevole, capace di crearsi una vita appagata e vivibile sì, con il supporto sì della famiglia e la collettività, ma spronandolo a fare la sua parte, stimolandolo a dare il meglio di sé aprendosi al mondo e facendo sentire la sua voce e i suoi diritti, perché la disabilità è una condizione umana e come tale va compresa e accettata.
La disabilità non è un problema ma una realtà fisiologica ed umana che appartiene all’apparenza dell’uomo. Il corpo non è altro che rappresentazione e materia del proprio esistere visivo e non ha nulla a che vedere con l’essere uomini.
Oggi insieme a Rito cercheremo di approfondire meglio il suo pensiero. Rosario Antonio Rito è nato il 19 ottobre del 1958. Effetto da paresi spastica, una vita non facile attraversata dal dolore di una disabilità che ne condiziona il movimento. Ma la sua è una forza di volontà che sa di miracoloso. Studi e pensiero si fondono insieme e inizia a scrivere poesie da giovanissimo. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie “Fratello”,1981: “Momenti”, 1983 e nel 1999, “Ciao Amico” – Fratello, ti confido i miei momenti” che le raggruppa tutte, oltre che delle nuove. Nel 1994, “Sete di uguaglianza – Commedia teatrale in tre atti”; 2010 “Gesù il Pescatore”, ed. Luigi Pellegrini; 2016 “Labirinti 1- funzione e destrezza soggettiva tra scontato e cogito”. “Educarsi alla disabilità” , Saggistica. Stampato nel 2001 ed a vent’anni precisi, nel 2021 in seconda ristampa.
Benvenuto, la scrittura è una tua grande alleata in questo cammino terreno. Quando l’hai incontrata?
Grazie a te per l’ospitalità. Ho iniziato a scrivere a partire dalle scuole medie come passatempo, durante il doposcuola all’A.I.A.S. di CS. Scrivevo tramite una macchina per scrivere. Naturalmente, tutto il materiale è andato perso. Non era come oggi che si salva tutto su computer o pennette drive, e si può conservare.
S’incomincia sempre per gioco o passatempo poi, quando, per caso, fai leggere qualcosa a qualcuno, è lì che parte la scintilla dei tuoi pensieri, dei tuoi come, perché. Poi con l’andare degli anni quel passatempo si è tramutato in comunicazione, messaggi silenti.La cosa più sorprendente è stata che le persone che mi circondavano, soprattutto facente parte dell’istituto, non mi vedevano più come un povero spastico, handicappato o qualcos’altro.
La cosa che più mi fece più star male, non stava nel fatto che molta gente si è accorse di me, dei miei pensieri e del mio modo di vedere le cose, dopo avere letto i miei scritti, ma l’essere incosciente che questo regola, stato di fatto, vale per tutti. Nessuno escluso. Chi non ti conosce, chi non ha un confronto diretto con te, non può valutarti, né dare il giusto peso ai tuoi pensieri, sensazioni, paure ed emozioni.Siamo solo immagine per gli altri e sta a noi aiutarli ad andare oltre. Questo vale per tutti. Il resto è solo opportunismo o facciata di circostanza. Credo che non serva a nulla, aver un linguaggio perfetto se non sai cosa dire o parli tanto per… possedere un’ottima agilità gambale se non si sa dove andare o una perfetta vista se non sai cosa osservare. È questa realtà umana che mi ha condotto a scrivere per comunicare e cercare di far capire, anche a me stesso, che le apparenze ingannano. Siamo tutti vele a vento in cui, solo ed esclusivamente la nostra emotività la fa da padrone. Nessuno escluso. Un foglio di carta è il mio amico più caro con cui posso parlare senza barare. Tante volte un foglio bianco può rivelarsi come strumento di autentica comunicazione con gli altri, e mai per gli altri.
Nella tua vita non ti sei mai abbattuto, ma hai portato il tuo pensiero sulla disabilità che concepisci la come una condizione fisiologica umana, ma che non ha nulla a che fare con l’essere uomini. Ti va di approfondire questo pensiero.
Lo sbaglio lessicale, e quando dico ‘Lessicale’, intendo, puro, semplice, istintivo con ragion di causa evidente e palese, è quello di confondere la Similitudine con l’Uguaglianza che sotto l’aspetto umano, sono due realtà molto diverse e contrastanti tra loro. Il punto principale della nostra Similitudine sta nel fatto che siamo nati da un ventre materno e che nonostante si può, sfortunatamente nascere non vedenti o con una qualsiasi imperfezione corporea, siamo tutti, proprio tutti, fonte di sensazione, emozioni, pensiero, desiderio e quant’altro. Il corpo o realtà corporali sono solo l’immagine della nostra presenza oggettiva. Oltre il corpo o l’immagine, noi non vediamo o conosciamo niente di chi ci sta di fronte. Anzi, è proprio la diversità che ci distingue uno con l’altro. Il dramma però sta nel fatto di non aver compreso che non sono un paio di gambe perfette o un linguaggio molto chiaro o ancora il possedere una buona vista a renderci normali o uguali, ma la nostra voglia di vivere, di realizzarci, di credere in sé stessi, di provare sensazioni di solitudine, di angoscia, speranza, gioia. È facile dirlo, soprattutto per chi cammina liberamente, possiede una buona vista e via dicendo, come tante volte succede a me, nei momenti di sconforto, solitudine, sofferenza o desiderio di fammi una passeggiata e non poter essere libero di poterlo fare. Andare a un funerale perché un tuo carissimo amico gli è morta la madre o potermi fare la barba se non è disponibile qualcuno. Ma che dovrei fare? Piangere dalla mattina alla sera per dargliela vinta a chi ci guarda e giudica come degli eterni sofferenti? Il fatto è che siamo semplicemente persone, come tali umanamente soffriamo, forse, un po’ di più degli altri, per il nostro egocentrismo che molte volte ci assale, ma non perché siamo o abbiamo una disabilità. Prima di essere ammalati, handicappati, disabili, siamo persone ed è è il nostro comportarci o apparire dinnanzi agli altri che molte volte, gli impedisce di conoscere la realtà della nostra normalità. Non possiamo pretendere che la vita sia onesta con noi, se noi non siamo onesti con la vita. Essere disabile, non significa essere immune dalle proprie responsabilità civiche e morali. Questo lo lasciamo a chi si sente superiore. Io o noi, inferiori non siamo. Anzi, meglio un ‘Fa…’ che un’ipocrita carezza.
Nel 2016 hai pubblicato il saggio “Labirinti 1- funzione e destrezza soggettiva tra scontato e cogito”. Nel libro racconti, oltre le tue considerazioni sulla disabilità e sulla sua evoluzione nel tempo, anche una parte della tua giovinezza, quale ricordo di quegli anni ti è più caro?

I ricordi sono tanti, come dico nella mia lunga Premessa. Gioie e dolori come tutti. Ho incominciato il mio inserimento sociale nel 1979, grazie a don Angelo Sabatino, parroco della Sacra Famiglia di Vibo valentia che in quegli anni, faceva nella prima quindicina di settembre un campo vacanza per noi. Per dire la verità, da quella prima vacanza, sono stato abbastanza fortunato, riguardo alle amicizie, rispetto, considerazione. Certo, non sono mancati i momenti difficili, soprattutto quando credevo e mi convincevo che alcune cose succedevano a me solamente perché ero disabile. Fu nel momento in cui le persone, soprattutto adulte, iniziarono a confidarsi e sfogarsi con me, che mi resi conto che non era così. Anzi. Tutto stava nella normalità. Come dicevo poc’anzi, siamo noi stessi pieni di pregiudizi e io, forse il più ricco di tutti, sotto quest’aspetto. Grazie a quel campo vacanza, iniziai a fare conferenze, convegni, a pubblicare i miei libri in modo autonomo. Andavo in una tipografia, ne stampavo un migliaio di copie e me li vendevo. Il 1981, è stato l’anno di svolta per me. Era ‘L’anno Internazionale dell’Handicappato’, a quei tempi ci chiamavano e definivano così. Da allora non mi fermai più. Ero invitato dappertutto: scuole, associazioni, convegni, ed ero anche molto rispettato. Il ricordo più caro? Quello d’innamorarmi sempre della donna sbagliata. Quello sì che è il ricordo più caro, anche perché l’ho pagato molto caramente. A parte gli scherzi. Sono tanti i ricordi, quanto le delusioni e le amarezze. L’amarezza più atroce l’ho avuta nel 2018. Mi fermo qui. Fra qualche anno la scoprirete o meglio, scoprirai.
Sempre in Labirinti 1 ci porti a valutare la disabilità sotto un’altra prospettiva facendoci comprendere che, paradossalmente, nascere disabile è il male minore che diventarlo in seguito ad una malattia o un incidente. Due parole a tal proposito?
Sin dalle scuole medie o forse, poco prima, abbiamo delle idee su ciò che desideriamo fare da grandi. Il ciò ci fa capire che siamo nati con un destino ben preciso da seguire e portare a termine, che è quello della nostra realizzazione personale. Questa realtà individuale può essere soggetta a una nostra negligenza, disattenzione o all’imprevisto, ci può essere donata anche dal fato. Un incidente con la macchina o in moto, sul lavoro, una malattia improvvisa e molto altro ancora. Quando questo succede, dopo che ti senti realizzata/o sul lavoro, nello sport o in una qualsiasi attività che ti dona prestigio, soddisfazioni, gioia e riconoscimenti, il mondo ti crolla addosso. Ti senti quasi inutile, senza senso. La tua vita è distrutta. È inutile negarlo. Non è facile riprendersi, accettarlo. I ricordi ti distruggono. Cosa diversa, invece, è nascere con certe realtà o particolari limitazioni di agilità di movimento corporeo, mancanza della vista o altro, non perché non puoi realizzarti, bensì perché ci devi credere molto di più. Sei, come si suol dire, solo contro tutti. L’unica amica che hai o ti sostiene è la tua volontà, il tuo crederci e questo significa, non solo non farsi condizionare da ciò che pensa o dice chi ti sta intorno, ma soprattutto, trovare il modo giusto di come puoi dimostrare agli altri che non è l’agilità dei movimenti che ti permette di fare, ma la propria destrezza di poter raggiungere, creare. L’importante è non farci condizionare dai nostri limiti o il chiacchierio degli altri. Quante persone nate senza braccia, dipingono con la bocca o scrivono trattenendo la penna tra le dita dei piedi? Quanti giovani senza le gambe, grazie a una protesi, fanno gare olimpiche? Giovani in carrozzella che giocano a pallacanestro o seduti a terra a pallavolo? Non sono i limiti a creare la nostra sorte, bensì la nostra forza di volontà che ci porta a poter raggiungere i nostri obbiettivi. Ciò non toglie che una cosa è la conquista di realizzare o realizzarci, e un’altra è perdere tutto. Un tutto che può essere riconquistato e riabilitato, esclusivamente se trovi la forza di ricredere in te stesso. Ecco il perché è meglio nascere che trovarsi da un giorno a l’altro con una realtà in cui non ti appartiene.
In “Educarsi alla Disabilità”, altro tuo interessante saggio, affronti diversi temi tutti di notevole importanza, mi soffermo sul forte senso di protezione che si scatena nei genitori di un bambino disabile, spesso si fa l’errore di rinchiuderlo in una bolla, non dandogli così modo di manifestare le sue capacità e vivere appieno la sua esistenza. Un consiglio per le giovani coppie che devono confrontarsi con un figlio disabile.

È una di quelle domande in cui non si può rispondere e non per un atto d’ipocrisia o indifferenza, bensì di rispetto nei confronti della sofferenza altrui. La donna è nata per essere madre e non esiste realtà, amore o sentimento più grande. Nove mesi di attesa, progetti, idee su cosa fare insieme, realizzare insieme e poi… È inutile che facciamo i finti tonti. È difficile per una madre rassegnarsi, accettare ma, nonostante tutto, lei cura, assiste, protegge, guida. È nel momento in cui il senso di protezione assume un livello troppo elevato che diventa dannoso da entrambi le parti. Avere o possedere una disabilità, non significa non potersi realizzare nel lavoro, sposarsi, avere dei figli è così via.
La iperprotezione da parte dei genitori, per timore di vedere soffrire il proprio figlio, ,disabile o meno, e in qualsiasi realtà si trovi, rischia di richiuderlo in una bolla dorata senza futuro. Nessuno è immune dalle delusioni e le sofferenze della vita.
Ecco perché sono del parere che il destino s’insegue e la sorte si dona. La cattiva sorte non è nascere disabile, ma credere che la disabilità impedisca di avere una vita degna di essere vissuta. È difficile, lo so, ma voler il bene di un figlio è anche credere in lui e con lui creare il suo domani.
Sempre in educarsi alla Disabilità apri un quesito davvero importante Il Cristo sinonimo di Sofferenza? Ci sproni a riflettere su come spesso si indentifichi il sofferente, il disabile o il malato, come figlio prediletto di Dio; come se la sofferenza fosse l’unica via per vivere degnamente questa vita; dimenticando che Dio non richiede né il dolore, né il sacrificio, ma ci chiede di accogliere la nostra vita con gioia e amore, nonostante le difficoltà, celebrarla in tutte le sue sfumature. Una tua considerazione.
Questo è stato uno dei principali motivi che mi ha allontanato dalla Chiesa. Anzi… Mi ritengo ateo anche se dai miei scritti, come dice la gente o miei lettori, non sembra o traspare. L’ho sempre dichiarato pubblicamente e man mano che il tempo passa, ne prendo sempre più atto. Vedo o meglio noto tante contraddizioni e soprusi dai praticanti della Chiesa. Una delle più grandi contraddizioni sta nell’affermare che ognuno di noi è un progetto di Dio, quando invece quel Gesù di cui parlano i Vangeli, al detto degli autori o scrittori, ha dato la vista ai cechi, le gambe a chi non camminava e l’udito ai sordi. Già qua le cose non mi tornano, ma quello che è più assurdo è vedere o descrivere Cristo come l’immagine della sofferenza umana. Innanzitutto, Cristo ha sofferto meno di quaranta ore, poiché tradito e venduto. Noi, invece, una vita per svariati motivi, sbagli medici e quant’altro. In secondo luogo, se veramente bisogna accettare la volontà del Padre, perché ha chiesto l’allontanamento del calice? Un padre, può desiderare il dolore o male del proprio figlio? Un uomo sì, ma il Dio della giustizia divina come può accettarlo? Oltre ha questo, se veramente ognuno di noi è progetto di Dio, che senso ha quel “Alzati e cammina… Pendi il tuo lettuccio e va in pace”. Secondo me, se veramente è esistito Gesù e solo un uomo con una grande umanità interiore. Certo, ci sono i miracoli ma resto incredulo, ugualmente. Al mio avviso, quel ‘Alzati e cammina’, significa solo “Abbi il coraggio di assumerti le tue responsabilità”, poiché, prima di essere disabile, sei uomo o donna e hai dei diritti, possiedi dei doveri, di cui il primo è quello di guadagnarti il rispetto, la considerazione e tutto il resto, se vuoi essere veramente considerato come persona comune e simile alle altre. È ora di finirla di pensare che perché siamo in certe condizioni, tutto ci è dovuto o che siamo le piaghe del crocifisso. Le proprie piaghe, ognuno le porta nel suo animo, nessun escluso.
Negli anni hai tenuto vari convegni sul tema, sei stato ospite di tante scuole. Qual è la domanda ricorrente che ti hanno fatto i giovanissimi?
Ho cominciato la mia attività pubblica verso la prima metà degli anni ’80, grazie al Preside delle scuole medie di Cessaniti (VV). Dopo questa esperienza iniziarono a invitarmi anche quelli delle scuole superiori. In quei anni, non era come ora. Tutto sembrava un tabù. La cosa più bella e sorprendente per me era quella che i ragazzini delle scuole medie, quando mi vedevano, mi chiedevano sempre il perché non parlavo chiaramente o altre domande del genere. Per loro era qualcosa di diverso. Non era come oggi. Ancora non c’era un vero inserimento. Anzi era nullo. Alle superiori, era tutto diverso, ovviamente. Si parlava di tutto, soprattutto di handicap e di come trascorrevamo le giornate. Le ragazze e le insegnanti erano molto curiose e attente. Non è una battuta. È la verità! Dalle scuole, passai, grazie agli amici, ai convegni pubblici, alle associazioni culturali e di volontariato. Insomma, ho fatto di tutto e di più. Io credo che non sia vero che i giovani non accettano un amico disabile o la diversità, ma viceversa: che siamo noi a non dargli da possibilità di conoscerci meglio. Io ho fatto molti errori sotto questo punto di vista e come tutti, sotto vari aspetti, mi sono quasi isolato. Bisogna lasciare la gente libera nel suo pensiero e modo d’agire, se vogliamo veramente crescere insieme e creare un bel rapporto. Ho sbagliato tanto. Soprattutto sotto l’aspetto dei pregiudizi. Anch’io avevo e ho tutt’oggi i miei tabù e di questo, come tutti, ho molti rimpianti.

Nell’ isola misteriosa, la tua raccolta poetica, trapela la tua parte conflittuale con Dio. Quando hai compreso che amarlo era la via verso la tua rinascita?
Come ho detto prima, il mio pensiero è molto cambiato da quando ero giovane. Ho vissuto fino a quasi vent’anni negli istituti e i primi erano guidati da suore. Ho avuto un’educazione e disciplina cristiana sin dalla tenera età e fino a trent’anni o poco più, ero un buon credente, ma un pessimo cristiano, anche se ero membro di vari gruppi religiosi come Rinascita cristiana, Unitalsi e così via. Non lo nego. Col passar del tempo provavo molto fastidio a pregare, sia da solo e soprattutto con gli altri, andare alla Messa, partecipare alle riunioni e così via. Di quel Dio di cui parlo nelle mie poesie, sicuramente era solo un’illusione emotiva o tanto ‘Per’. Non lo so, che senso ha tutto questo. Anzi, non ne ha proprio e ne sono cosciente. Credo che quella sensazione di benessere che noi sentiamo dentro, sia una specie di riappacificazione che il nostro sé, che si riacquista dopo il confronto con le nostre ragioni. Ecco cosa significa acquisire la pace dei sensi. Essere in dialogo continuo con noi stessi e non al servizio del nostro egocentrismo. O meglio, la nostra sofferenza, l’Io, appunto, la ricerca di senso che è la voce silenziosa della propria anima. Sì, certo. Noi professiamo il Cristianesimo, però ci dimentichiamo che anche il più delinquente dei delinquenti o l’omosessuale è un cristiano, per il semplice fatto che, l’Identità cristiana, ci viene donata con il battesimo. Il resto dipende dal nostro agire e non semplicemente da moralismi che invece di accettare, rifiutano di accogliere, evitano e via dicendo. Credo che da giovane mi sia illuso… Beato chi crede in un Dio. L’importante per me, è credere in me stesso. Ciò è l’unica fede da cui non dobbiamo mai distaccarci, se desideriamo rimanere razionali con noi stessi. Se esiste un Dio, come dicono, non esisterebbero le religioni, bensì una sola credenza universale. Chi vuole intendere, intenda”.
So che stai scrivendo Labirinti 2. Un’ anticipazione.
“Parlerò del Bene e del Benessere che, oltre a essere in contrapposizione tra loro, possiedono un denominatore comune: ‘Condizione’. Poiché il bene si può acquisire, si può donare o va oltre alla donazione? Esiste il bene comune o il benessere conviviale? Sono domande in cui, anch’io ho difficoltà a rispondere. Credo di ultimarlo per i primi di giugno”
Descriviti in una sola parola?
“Egocentrico. Molto egocentrico” e questo mi produce o conduce a essere in contrapposizione con il mio dire. Me lo dicono tutti.
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