SCRITTORE DEL ROMANZO, LA STRATEGIA DEL DIAVOLO.
Oggi nel mio spazio ho il piacere di ospitare lo scrittore del romanzo “La strategia del Diavolo” edito da “Edizioni Della Goccia”.
Ho avuto l’opportunità di leggere questa sua opera d’esordio e sono rimasta colpita dal suo stile fluido e mai ridondante. La sua scrittura riesce a catturare l’attenzione del lettore, permettendo di immergersi completa-mente nella trama. Pur non essendo una grande appassionata di questo genere letterario, posso affermare che la narrazione, arricchita da una notevole abilità descrittiva e da dialoghi vivaci e dinamici, mi ha sorpre-so in modo molto positivo. È davvero un abile narratore!
Conosciamolo meglio: Paolo A. Sorrentino nasce a Savona nel 1953. Trascorre la sua infanzia e adolescen-za, viaggiando da nord a sud lungo il territorio italiano a causa degli spostamenti del padre, comandante dei Vigili del Fuoco in carriera. Questa esperienza gli consente di sviluppare un’innata capacità di osservazione, raccogliendo un ampio repertorio di conoscenze e dialetti che diventano una preziosa fonte d’ispirazione per la sua scrittura. Dopo essersi laureato in Medicina e Chirurgia con specializzazione in Chirurgia Generale, inizia la sua carriera professionale in ambito universitario, per poi passare a ruoli ospedalieri, culminando nella direzione di un reparto di chirurgia in un ospedale del nord Italia. Appassionato di letteratura, cinema e fotografia. La strategia del diavolo segna il suo esordio nel mondo editoriale.
Per chi non conoscesse ancora questo imperdibile romanzo ecco la descrizione: A Milano, una giovane donna si getta nel vuoto dal sesto piano e pochi giorni dopo, a Trieste, un uomo va incontro a una morte orribile mentre pota un albero nel suo giardino. Due tragedie inspiegabili senza nessun legame apparente che attirano l’attenzione di una tenace giornalista milanese con una ferita professionale ancora aperta e di un chirurgo universitario di Trieste che vive per il suo lavoro intrappolato in un malsano rapporto simbiotico con un carismatico barone, suo maestro e mentore. Le loro piste conducono entrambe all’eminente professore, e i due singolari detective si ritroveranno, in un crescendo di azione e colpi di scena, a fare i conti con un passato che ritorna: alla fine il Diavolo reclama sempre il suo debito. Sullo sfondo, il competitivo mondo universitario e il complesso rapporto tra allievo e maestro nel delicato processo di formazione.
Sono proprio curiosa di conoscere meglio l’autore e qualche dettaglio in più su questo avvincente romanzo e i suoi protagonisti.
Innanzitutto, grazie di essere qui, quali sono stati gli autori letti negli anni che l’hanno spinta ad appassio-narsi a questo genere letterario?
Grazie a lei per avermi invitato e, soprattutto, per aver letto il mio libro. Gli autori del genere che mi hanno catturato sono molti, soprattutto stranieri: primo fra tutti metterei Simenon, poi Fred Vargas, Peter May, Joël Dicker, Stieg Larsoon, Pierre Lemaitre… l’elenco sarebbe davvero lunghissimo. Fra gli italiani direi Maurizio De Giovanni, Luca D’Andrea e Gianrico Carofiglio, per il quale ho una spiccata predilezione.
Il suo lavoro la porta ogni giorno a contatto con il dolore, con la morte… e anche qui il “male” compie la sua strategia. La Medicina può combatterlo ma è la forza d’animo del paziente che spesso vince la battaglia. Una sua considerazione.
La resilienza e la determinazione a voler guarire sono elementi fondamentali in chi si trova a combattere con la malattia, di solito un evento inatteso, capace di sconvolgerti letteralmente la vita così come l’avevi pensata fino a quel momento. Ci sono molti studi scientifici, osservazionali, che lo suggeriscono. Anche se, ovvia-mente, queste da sole non bastano: la cura di una malattia, a volte anche solo il miglioramento della qualità di vita, è il frutto di un complesso lavoro d’equipe di cui il paziente è parte integrante, e non può in alcun modo prescindere dal contesto, una struttura qualificata e multidisciplinare in grado di offrirgli le migliori soluzioni possibili.
Quando ha maturato l’idea di scrivere questo romanzo?
Prima di essere uno scrittore, sono un chirurgo con una profonda passione per i libri, il cinema e la fotografia. Un osservatore curioso, quindi, che avendo trascorso gran parte della sua vita professionale in una clinica universitaria, un microcosmo con uno straordinario e variegato campionario di esemplari umani e situazioni derivanti dalla reciproca interazione, non poteva non cogliere gli innumerevoli spunti di riflessione che quello gli offriva. Non disponendo di altri mezzi in grado di rendere così efficacemente quell’ambiente, le sue con-traddizioni, i suoi conflitti interni, i giochi di potere, la sua ritualità istituzionalizzata e tramandata di genera-zione in generazione e, per certi aspetti, la sua involontaria comicità, ho deciso che dovevo provare a farlo con un libro. Così è nato “La strategia del Diavolo”, un giallo thriller con protagonista un chirurgo che, im-brigliato in un complicato rapporto simbiotico con il suo maestro e mentore, vede a un certo punto ribaltarsi l’orizzonte delle sue certezze e si trova costretto a rimettere in discussione tutto ciò in cui ha creduto, o che gli hanno fatto ciecamente credere fino a quel momento.

Cosa non deve mancare in un buon Giallo?
Il giallo, e ancora di più il thriller, sono considerati un genere d’intrattenimento, in realtà io lo vedo più come un contenitore, governato sì da regole imprescindibili, ma con una gamma infinita di possibili sfumature che ne fanno un mezzo d’espressione dalle incredibili potenzialità, e dove l’unica cosa che deve mancare è la noia. E quindi, direi, la credibilità della trama e dei personaggi, innanzitutto, e poi la tensione, la suspence e tutti gli elementi capaci di catturare l’attenzione del lettore che dev’essere accompagnato, pagina dopo pagina, alla soluzione dell’enigma in base agli indizi che l’autore ha disseminato: la prova che un giallo è riuscito, che ha assolto il suo compito, è quando il lettore torna indietro a rileggere alcune delle pagine precedenti e scopre quello che gli era sfuggito, ma che era sempre stato lì, sotto i suoi occhi.
Se potesse del suo libro realizzarne un film, a quale attore affiderebbe il ruolo di Ernesto De Santis e a quale attrice quello della giornalista, Anita Sierna?
Per rimanere in casa nostra, credo che vedrei bene Michele Riondino nel ruolo di Ernesto e Greta Scarano in quello di Anita. Se dovessi guardare più lontano, invece, il mio primo pensiero andrebbe a Alma Pöysti e Jus-si Valanen, gli straordinari interpreti di Foglie al vento, di Kaurismäki. Fantasticare è bellissimo, e non costa niente.
Tutti noi abbiamo nella nostra vita un Pierluigi Tonon (leggete il libro per sapere di chi sto parlando) Lei lo ha un amico così?
In effetti, il personaggio di Tonon è quello per cui ho dovuto lavorare meno di fantasia. È un caro amico che mi ha inconsapevolmente fornito gran parte degli elementi che caratterizzano il personaggio. È veneto, e ap-pena finito di leggere il libro mi ha confidato fiero: «Go capio tutto: Tonon so’ mi!».
Donato Carrisi pone un interessante quesito che, in qualche modo, è inerente al suo romanzo e chiede: “Buoni o cattivi, malvagi o compassionevoli si nasce oppure si diventa?”. Una sua considerazione.
Il carattere di ognuno di noi si forma nei primi sei anni di vita. Se si esclude l’ambito patologico, credo che cattivo o malvagio lo si diventi. Il contesto, l’ambiente formativo, la famiglia, gli esempi e le circostanze hanno un ruolo determinante. Come faccio dire a Ernesto, a un certo punto del libro: “… ho avuto la fortuna di imparare moltissimo dagli esempi negativi, che in una clinica universitaria davvero non mancano. Se pos-siedi gli strumenti per la decodifica, l’esempio negativo vale come e più di quello positivo”. Si tratta, appun-to, di avere o meno gli strumenti per operare quella distinzione.
Camilleri scelse di chiamare il suo protagonista, Montalbano, ispirandosi allo scrittore: Manuel Vásquez Montalbán, autore de “Il Pianista”. Da chi o da cosa, lei, si è ispirato per creare il personaggio di Ascanio Riboldi?
Per la creazione del professor Riboldi, uno dei villain del romanzo, non mi sono ispirato a una persona in par-ticolare, ma è piuttosto la somma dei tanti esempi negativi che ho avuto modo di osservare nella mia lunga frequentazione delle corsie universitarie e ospedaliere. In lui ho concentrato tutto ciò che accomuna e con-traddistingue molti dei soggetti apicali che, in una struttura piramidale e chiusa come quella universitaria, fa-cilmente gestiscono il potere celando le proprie vistose contraddizioni e incoerenze dietro il fascino e il cari-sma del grande chirurgo. Non basta l’abilità tecnica per definire un uomo o per fare di lui un bravo medico. Una curiosità: il nome è soltanto il frutto della ricerca dei cognomi lombardi di “buona famiglia” più diffusi. La fantasia, qui, non c’entra.
In queste pagine si apre una finestra sul competitivo mondo universitario e il complesso rapporto tra l’allievo (Ernesto De Santis) e il maestro (Ascanio Riboldi) nel delicato processo di formazione. In poche righe può spiegare ai nostri lettori quali sono i fattori psicologici che portano ad un rapporto simbiotico e malsano?
L’allievo non è immune all’inevitabile fascino esercitato su di lui dal Maestro, tutt’altro. E in una disciplina come la chirurgia, il divario iniziale tra allievo e maestro è enorme. Quel rapporto, se sbilanciato, è una fase del processo di formazione ad altissimo rischio, in cui l’allievo è estremamente esposto e dove può arrivare a subire una vera e propria fascinazione. Se poi consideriamo aspetti che riguardano la possibilità o meno di fa-re carriera in un ambiente competitivo e spietato come quello universitario, la cosa si complica ulteriormente. Torniamo sempre agli strumenti di lettura che ciascuno di noi ha o dovrebbe avere: se il maestro è un cattivo maestro, e l’allievo è vulnerabile, si può assistere a una sorta di clonazione, un imitation game dagli effetti imprevedibili e spesso nefasti. Non parlo solo dal punto di vista tecnico, naturalmente.
Quanto di biografico c’è di lei in questo romanzo?
Ovviamente, molto. Credo sia normale che nel creare una storia, i suoi personaggi, un autore cerchi ispirazio-ne in fatti e persone reali, situazioni che lui ha vissuto, persone che ha conosciuto e potuto osservare da vici-no, ma quando si scrive un giallo thriller la fantasia e l’invenzione finiscono per forza di cose per avere un ruolo preponderante, per offrire al lettore una storia capace di sorprenderlo ad ogni pagina e dei personaggi credibili e coerenti, ma nello stesso tempo originali, in cui potersi identificare senza mai annoiarsi. Una bella sfida. Ma, se si vuole ottenere un risultato credibile, credo che il confine tra realtà e invenzione debba rimane-re indefinito, non riconoscibile. Lasciamo al lettore i suoi dubbi. In sintesi, come qualcuno ha detto, “tutto ciò che ho narrato in questo libro è vero, tranne quello che ho inventato”.
Progetti futuri?
Sto lavorando al seguito. In La strategia del Diavolo, qualcuno a un certo punto insinua che Anita potrebbe essere vulnerabile, avere degli scheletri nell’armadio. Quell’armadio non è stato ancora aperto. Ci sto guar-dando dentro proprio adesso.
Si descriva in una sola parola.
Curioso.
In attesa di leggere il seguito di questo avvincente Giallo. Ricordo agli amici lettori il link dove acquistare La strategia del Diavolo.
Leggete la mia recensione








Lascia un commento