Riporto l’accurata recensione della giornalista, Giuseppina Tesauro. Direttrice di Epoca Culturale, che ringrazio per il tempo dedicato alla mia opera
“Lo sapevi che? Io no, ma il mio caporedattore sì!” di Monica Pasero: un diario ironico e affettuoso che trasforma la scrittura in resistenza.
“Ti ho amato come una parte di me.
Insieme a te scriverò sempre.”
(Monica Pasero)
Lo sapevi che? Io no, ma il mio caporedattore sì! di Monica Pasero è molto più di quella che in apparenza potrebbe sembrare una raccolta degli articoli di un sito: è un diario esistenziale punteggiato di ironia, un viaggio tra emozioni, dubbi e domande che ogni lettore, scrittore o essere umano si è posto almeno una volta nella vita.
A guidarci c’è una voce affettuosa e affilata, fuori dal coro: quella di Monica Pasero scrittrice e giornalista con oltre sedici pubblicazioni all’attivo. Ma soprattutto, a vigilare su ogni pagina, c’è Sgrinfia, il suo “caporedattore” felino. Non un semplice animale domestico, ma una presenza affettiva, creativa, quasi totemica, che accompagna Monica tra scrittura, pause, pensieri e dolcezze quotidiane.
Quando Sgrinfia viene a mancare nella primavera del 2024, l’autrice raccoglie 41 riflessioni che spaziano dalla lettura alla libertà di scelta, dalla promozione editoriale al fallimento, fino a toccare la fortuna, l’immaginazione, la resilienza e l’identità. Ogni capitolo prende le mosse dall’etimologia di una parola, trasformandola in chiave di lettura per esplorare il mondo e sé stessi.
Tra aforismi, citazioni colte, episodi autobiografici e spunti autoironici, il libro si fa dialogo vivo, mai scontato. Con il sorriso sulle labbra, Monica affronta anche la vulnerabilità, le aspettative disilluse, la fatica dell’essere scrittrice indipendente in un panorama editoriale che premia solo i “trovabili”.
Lo stile è diretto, colloquiale, terapeutico. Sembra di ascoltare una conversazione con un’amica intelligente e un po’ disillusa, capace di raccontare le proprie sconfitte ma senza vittimismo e con la grazia di chi sa ancora sognare. L’espediente narrativo del “caporedattore” – la gatta Sgrinfia – è tenero e brillante insieme: diventa coscienza critica, mordace e affettiva. Una compagna d’inchiostro che, pur nella sua assenza, resta voce tangibile di ogni pagina.
Il quarantunesimo e ultimo capitolo, intitolato Il Gatto, è l’atto d’amore più alto: Monica non solo racconta la simbologia culturale del felino, ma lo trasfigura in entità magica, quasi sacra.
Scrive:
“Avere un gatto in casa non è solo una compagnia, ma una benedizione… Ho sempre pensato al gatto come un essere alieno giunto tra noi a donare energia fatta d’amore.”
A suggellare questo sentimento, la poesia di Fabrizio Caramagna chiude il cerchio con delicatezza:
“Quando un gatto fissa immobile un punto,
forse sta creando una poesia.
O sta scoprendo un varco nell’universo.
O sta aspettando la venuta di un angelo.”
Questo è un libro per chi ha amato, per chi ha perso, per chi ha scritto e non è stato letto, per chi sogna ancora anche quando sembra sciocco farlo.
Un piccolo scrigno di umanità che non insegna, ma accompagna. Non consola, ma accoglie. E nel farlo, ci ricorda che le parole – come i gatti – hanno ancora un potere magico.
Stile diaristico e colto: tra citazioni e confessioni, Monica reinventa il saggio personale.
Lo stile di Monica Pasero è dichiaratamente diaristico, ma di un diario che si apre al mondo, che vuole includere e non isolare. È una scrittura immersiva, pensata per il lettore, con cui dialoga come con un confidente, tra uno sfogo e un sorriso, tra un ricordo intimo e una domanda universale. Il linguaggio scelto dall’autrice è immediato e sottile eppure attraversato da una delicatezza che scava sotto la superficie. In questo equilibrio tra profondità e leggerezza, tra riflessione e battuta, si avvicina – pur restando unica – ad alcune voci autorevoli della letteratura contemporanea e diaristica
In questo, si colloca nella scia di una scrittura autobiografica partecipata, simile a quella di Natalia Ginzburg, ma con un tono più ironico, vicino alla scuola di pensiero della “leggerezza profonda” teorizzata da Italo Calvino nelle Lezioni americane. Monica non rifugge la realtà, ma la attraversa con grazia e con una voce che ha il dono della confidenza immediata.
Ciò che rende unico questo stile è l’equilibrio tra il tono confessionale e l’uso colto di riferimenti filosofici e letterari, che non appesantiscono il discorso, ma anzi lo rendono vivo, dinamico, quasi teatrale. Freud, Emerson, Wallace Wattles, Beckett, Manzoni: gli autori citati non sono mai ostentati, ma entrano nel discorso con naturalezza, come se fossero ospiti invisibili nella stanza in cui Monica scrive.
Questa capacità di intrecciare riflessione e citazione fa pensare ai saggi narrativi di Joan Didion, sebbene qui con una vena più tenera, italiana, autoironica. Non è un caso che Monica parta quasi sempre da un’etimologia – un gesto da linguista, da esploratrice della parola – per poi aprire varchi esistenziali attraverso lo sguardo della scrittura.
A livello ritmico, i capitoli hanno una struttura libera, talvolta fluviale, dove la punteggiatura accompagna la voce, più che seguire la rigida struttura imposta dagli schemi grammaticali. C’è una musicalità del pensiero parlato, che si alterna a momenti di poesia improvvisa, di aforisma o di sintesi spiazzante.
Il “caporedattore” (la gatta Sgrinfia) diventa in questa struttura un espediente narrativo affettivo e quasi totemico: una voce silenziosa che osserva, corregge e consola. La presenza di Sgrinfia restituisce al libro un tono intimo e magico, che ricorda l’uso simbolico degli animali nella narrativa mitopoietica di Coelho, ma senza retorica spirituale.
In definitiva, il libro si inserisce con originalità nel solco di una scrittura ibrida definita così in quanto trasfonde diversi stili e generi: diario, saggio e confessione, unendo pensiero critico, cultura filosofica e verità personale in una prosa che non vuole convincere, ma condividere.
Un’opera sincera e colta, che rifiuta ogni etichetta e si affida, come il suo autore, all’unica cosa che davvero resta: la voce.
Etimologie, gatti e parole magiche: un viaggio nella resilienza attraverso la scrittura.
“Lo sapevi che?” non è solo un titolo curioso: è la struttura narrativa di questo testo. Monica Pasero lo trasforma in un invito alla scoperta, in un piccolo rituale conoscitivo che si ripete capitolo dopo capitolo. Ogni volta, la parola scelta – lettura, fallimento, aspettativa, desiderio, fortuna – viene scomposta, analizzata nella sua etimologia, e quindi ricomposta, ma in una nuova luce. Il gesto non è mai puramente linguistico: è un’operazione esistenziale. L’etimologia diventa una chiave per rileggere la vita, quasi un atto di ribellione poetica contro il linguaggio automatico, consumato.
In questo senso, la parola non è solo veicolo: è atto politico e affettivo. Freud, citato in apertura, lo ricorda con forza: le parole sono incantesimi. Monica ne fa un uso consapevole, scavando nella loro radice per restituirle al loro potere originario. In un’epoca in cui tutto è veloce e superficiale, l’autrice compie il gesto contrario: rallenta, osserva, riflette.
Non c’è una trama, ma una progressione emotiva. Il libro inizia con una riflessione sulla lettura – il primo gesto che ci connette con l’altro – e si chiude con “Il Gatto”, metafora di quell’amore muto e profondissimo che non ha bisogno di spiegazioni. È un viaggio dall’esterno all’interno, dalla società al sé, dal mercato editoriale all’intimità. E proprio per questo l’opera si configura come un cammino simbolico, che parte dall’indignazione e arriva all’accettazione.
Il tono cambia: si passa dalla satira sul sistema editoriale a riflessioni filosofiche sull’aspettativa e la felicità, fino a capitoli quasi liturgici (come quello dedicato alla fortuna o al desiderio), dove la parola assume un valore rituale, e persino taumaturgico. È qui che il testo si avvicina alla forma del midrash contemporaneo: una scrittura che non insegna, ma interpreta il mondo.
Sgrinfia, la “caporedattrice”, non è solo un personaggio: è simbolo. Rappresenta il lato intuitivo, contemplativo, silenzioso della scrittura. Se Monica è la parte razionale, che scrive, si affanna, si arrabbia, Sgrinfia è quella che osserva, che accoglie, che sta. Come gli animali guida nella mitologia, la gatta è una presenza iniziatica, e il suo sguardo muto sembra dire ciò che Monica non scrive.
Nel capitolo finale, il tono cambia. Diventa elegiaco, dolce e sacrale. Sgrinfia non è più solo un animale domestico: è un ponte tra mondi, tra il visibile e l’invisibile. Il libro si chiude così con una dichiarazione d’amore che non è fine, ma promessa: “Insieme a te scriverò sempre.”
GIUSEPPINA TESAURO








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