Bentornata Francesca, come è nata l’idea di scrivere questo libro?
Un ben ritrovato a voi e grazie. L’idea è nata dal mio interesse per il sociale e dal voler scrivere di un argomento che, spesso, viene dimenticato o narrato solo in occasione di eventi quali suicidi, evasioni, episodi di violenza.
“Il silenzio dentro”, quale è la giusta interpretazione di questo titolo?

È un titolo che si presta volutamente a più interpretazioni, tutte giuste: il silenzio dentro di sé, il silenzio in cella, il silenzio che la società rivolge alla questione “carcere”.
All’ interno del volume sono raccolte parecchie interviste da te realizzate a persone attive nel settore carcerario; tra le tante quale ti ha colpito maggiormente?
Tutte mi hanno colpita e hanno aggiunto qualcosa alla mia conoscenza e all’opera. Sicuramente quella sulle tossicodipendenze realizzata con la Dottoressa Germana Cesarano mi ha fatto correre i brividi lungo la schiena a più riprese e questo succede ancora oggi se la rileggo, a distanza di mesi.
Mahatma Gandhi sui detenuti aveva una sua particolare interpretazione. “Tutti i criminali dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di ammalati”. E ti chiedo divenire criminali può essere davvero correlato ad uno stato patologico, bisognoso di cure?
In questo libro non ho condannato né assolto, non spettava a me, mi sono messa empaticamente in ascolto, ma senza lasciarmi andare al buonismo, anche per rispetto delle vittime, dei loro cari, della società tutta e, se ci si sofferma a pensare, anche del condannato o condannata stessi, perché questi ultimi dovrebbero essere i primi a rendersi conto di quanto commesso e a non volersi ripetere. Tuttavia, è altresì vero che spesso dietro a un reato c’è una fragilità, c’è un esempio deviato che lascia poco scampo a imitazioni virtuose, c’è una cura che è mancata. Quindi sì, se la leggo in questa ottica, condivido la frase di Mahatma Gandhi.
Il tuo libro rende bene l’idea di quanto tutti gli strumenti oggi a nostra disposizione non siano bastati a debellare il degrado e la povertà che continua ad esistere e la conseguente criminalità. Un concetto educativo improntato su una società civile e collaborante non può bastare, quando di base si vivono situazioni cosi disequilibrate: dalla ricchezza alla mera povertà. Una tua riflessione.
I nostri tempi stanno assistendo a un grande progresso sotto alcuni aspetti e a una forte perdita di valori nello stesso momento, fenomeno che mi preoccupa non poco.
Le disuguaglianze sono evidenti, lo sono anche quando si tratta con due pesi e due misure un tema così drammatico come la guerra, dove in alcuni Paesi fa notizia ogni giorno e in altri no, quasi a dirci che si sono genocidi e scelleratezze meno gravi, di serie b, che non hanno bisogno di attenzione e aiuti umanitari.
Partendo da questo assunto, ti cito testualmente le frasi del Dottor Enrico Sbriglia, penitenziarista: “Oggi le carceri si sono trasformate in grandi caravanserragli: sono piene di folli, di disadattati, di uomini e donne che hanno delinquito perché espunti dal mondo del lavoro, perché scarto delle crisi economiche, della perdita di lavoro, di mancanza di case; oppure di giovani, indigeni o stranieri, che non sono stati correttamente investiti di responsabilità sociali e verso i quali la scuola e le istituzioni formative tradizionali hanno fallito la propria missione, studenti non sintonizzati con il vivere civile che, forse, a essi non è stato mai spiegato o fatto comprendere come ricchezza sociale e non come mera limitazione di diritti”.
Cercando nel frattempo di rieducare chi si è già macchiato di reati e offrendo un reinserimento post condanna che lo tenga lontano dalla recidiva se davvero desideroso di riprendersi la vita in mano, partirei quindi dai più giovani con un’opera di prevenzione, affinché non arrivino a delinquere. E qui mi vengono in soccorso le parole della Dottoressa Anna Palermo, criminologa: “EDUCARE ALLA LEGALITÀ vuol dire innanzitutto TRASMETTERLA e, di conseguenza, PRATICARLA, senza mai dimenticare che l’istruzione è essa stessa la sfida alla criminalità!”.
Tra le tante beghe del sistema penitenziario quale è secondo te la peggiore?
Credo la burocrazia, che allunga tantissimo le tempistiche della Giustizia e di presa in carico di alcuni casi urgenti e rende difficile far collimare le esigenze del mondo del lavoro e dell’imprenditoria con quelle interne del carcere, complicando così un possibile reinserimento sociale post condanna.
Pena di morte Sì o No?
Premettendo che mi sento mancare la forza nelle gambe davanti a certi reati, la mia risposta è No.
Qual è il messaggio che vorresti arrivasse al lettore?
Vorrei che chi legge arrivasse all’ultima pagina sapendone maggiormente sull’argomento rispetto a prima e che non voltasse più lo sguardo dall’altra parte fingendo che il carcere non esista e non ci tocchi. Se chi ha scontato una pena non ha fatto un percorso di riabilitazione il problema, oltre a essere suo e dei suoi familiari, è della collettività e della sua sicurezza.
Prossime presentazioni?
In questo momento sono molto impegnata nel rilasciare interviste, ma dopo la prima presentazione in questo mese di novembre stiamo pensando a qualche evento in libreria, in carcere e a dei festival.
Come è il giornalismo che ti piace?
È un giornalismo costruttivo, anzi è il Giornalismo Costruttivo, che si mette in ascolto, non polarizza l’informazione e cerca di offrire anche delle soluzioni alle questioni esaminate.
Ringraziando Francesca Ghezzani per avermi rilasciato questa intervista; ricordo agli amici lettori il link per acquistare il suo libro.








Lascia un commento