Schiudeva primavera le corolle, di Alessandro Pierfederici;
recensione a cura di Deborah Benigni
Prefazione di Monica Pasero, Marzo 2025
“Ho bisogno di avvolgermi/ nella coperta del passato/ quando esistevano le fiabe/ e il cuore sognava primavera”: l’intimistica quartina della poesia Inverno, parte della nuova raccolta poetica dello scrittore Alessandro Pierfederici, regala al lettore quel senso di nostalgia e dolcezza di cui sembrano perfettamente intrisi i suoi versi, destinati a diventare per chi legge un viaggio – delicato e profondo – nelle stagioni del cuore.
Scritte quasi integralmente in un arco temporale di circa dieci anni (1983-1993) i 59 componimenti raccontano un passato sentimentale che esiste e persiste nel presente, attraverso immagini di una tale solarità da restare impresse come pennellate pastello su simboliche tavolozze arcobaleno: “si tinge di mille colori/ la bianca tela della vita/ quando il mio cuore/ vi dipinge il tuo sorriso”; “sei tu la luce della nuova aurora/ che schiude un’altra vita alla mia vita”. La memoria di un sentimento antico e travolgente, quasi panico ed estatico (“questa passione è vento d’uragano/ che giù dai monti, dai boschi adagiati, su pendici innevate dal passato,/ soffia e trascina ricordi e speranze”) si fonde nel dolore – trasfigurato, metaforicamente, in tenerezza – e si sovrappone a quella di un amore intenso, ma fugace, che segna indelebilmente l’anima, e sembra non lasciare possibilità di salvezza (“quanto corre lontana la tua vita/ quando sui tetti bagnati e sui tristi,/ neri lampioni di strada si adagia/la malinconica sera d’autunno/ che inonda di dolore il cuore mio,/ l’inesorabile tempo battendo/ della mia fragile, inutile vita”). Le leggere, odorose corolle che danno titolo all’opera, sono simili a leopardiane ginestre, resilienti, aggrappate con forza ad un terreno ormai arido d’amore, ma profondamente vive: la bellezza è nella loro fragilità, che implica caducità e voluttà al tempo stesso. Voluttà e volontà scandiscono, musicalmente, il tempo dell’anima: le anafore dei vorrei fanno da contraltare al profondo abisso di tenebra e ghiaccio in cui l’io lirico sembra sprofondare, per poi però trarre linfa vitale dalla sua stessa, simbolica morte.
La dimensione del sacro, strettamente connessa all’ideale Amore, è nitida, come dimostra l’immagine dei ceri/nel tempio abbandonato dai fedeli” o della “timida, fragile e lieve fiammella,/ tremolante ad ogni alito di vento” di cui non resta memoria. Ma, nell’intimo, c’è qualcosa che resta, che arde. Forse, in maniera anacronistica, si continua a cercare quella scogliera, quella “rocca abbandonata,/ flagellata dal vento e dall’onda”. E’ vero, “bussola è impazzita“: probabilmente il filo di montaliana memoria davvero non tiene più, ma se si guarda indietro, nella quiete di un crepuscolo che non ci abbandona mai, si può trovare pace. Nei “ridenti paesaggi d’infanzia/ che la memoria soltanto conserva”, nel “nido lontano dal male“, nelle “immagini/ di lieti bimbi, ragazzi felici” è possibile recuperare se stessi, in una dimensione quasi onirica che non può sconfiggere la malinconia, ma renderla compagna silenziosa, poetica, comunque amica, capace ancora di generare fiori “dal candore delle nevi intatte”.
Ed è per questo che l’ultimo lavoro dell’autore, già premiato maestro e direttore d’orchestra, possiede ancora una volta tutte le caratteristiche di armonia e musicalità che possiamo ritrovare nelle produzioni precedenti, dove come accade in uno spartito, le parti confluiscono in un tutto che mai stona, nel quale scrittura e scelte lessicali risultano sempre organiche, ma originali al tempo stesso. Il leitmotiv del tempo scandisce i toni emotivi, donandoci l’idea lucreziana dell’Amore come il più importante generatore di vita. Quella vita che è la “sacra custode dell’amore eterno“.
Deborah Benigni
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